giovedì 28 agosto 2014

Basterds on the road

Sto giocando ad una vecchia gloria del PC, Caesar 4, quando mi arriva un messaggio da Alex: "Stasera si va ad Aglientu".
Nella mia testa si forma vivida un'immagine: me, il sabato prima, vagamente ubriaco, che affermo che sarebbe un idea favolosa andarci. "Ma certo, stai tranquillo, preparo io da mangiare".
D'ho.
Metto sù una cofana di riso per quattro persone, recupero qualche barattolo da casa, poi preparo in fretta e furia lo zaino, visto che Alex sarebbe passato a prendermi alle cinque.
Verso le sei sento il suono familiare del clacson, e io mi sto asciugando dalla doccia appena fatta. Il riso è pronto, anche se in realtà devo ancora mettere qualche ingrediente e lo zaino è fatto per metà. Finisco tutto in tempo di record e, con la barba ancora gocciolante, salgo in auto. Mi accolgono Alex e i due amici romani, Celestino e Attilio (nomi di fantasia).

Destinazione Aglientu, per il Summer Blues Festival.


 
Il percorso



In auto, oltre la mia insalata di riso fatta con materiali di fortuna, ci sono 4 litri di birra dell'eurospin con bottiglia di plastica, residuo di una cena a casa mia della settimana prima; una roba che non userei neanche per lavare per terra.
Chiaramente siamo in ritardo per l'inizio del festival, ma questi sono puri e semplici dettagli.

Arriviamo, tra una cazzata e l'altra, a destinazione che sono le 8 passate, non prima di esserci fermati a Tempio per comprare qualcosa da bere: un bottiglione da due litri di vino bianco, simil Tavernello, che si rivelerà essere sorprendentemente gustoso.



La cofana di insalata di riso.


Prendiamo posto lungo gli spalti, mangiamo l'insalata di riso, ci finiamo i due litrozzi e ci godiamo il concerto di Charlie Musselwhite Band, un po' ciucchi e sorprendentemente stanchi. Finito il tutto, ascoltiamo un paio di pezzi del gruppo successivo, Sax Gordon Band, ma non gliela si fà e decidiamo di levare le tende.

Il luogo prescelto per dormire è Palau:


 


nella vecchia Fortezza di Capo d'Orso.



Tipo così.



Nel caso ve lo steste chiedendo, la fortezza è scavata nella roccia e quelle nella foto, in mancanza di altre migliori, sono solo le mura e/o edifici minori. La nostra destinazione era in alto. In cima.



Ecco, lì.


Il posto è splendido, ma completamente abbandonato e sinceramente non c'è nessuna voglia di esplorarlo all'una di notte.
Percorriamo quindi la ripida salita che ci porta pressappoco dove c'è l'entrata e ci troviamo di fronte ad una porta.
Murata.
«Alex ma questa roba l'altra volta non c'era!»
«Hoybò ecchessuccesso!» risponde lui.
Mi volto e in mezzo al corridoio esterno, c'è un gigantesco albero di fico che blocca completamente il passaggio. Di entrare dentro passando da una finestra non se ne parla, perchè è buio e vabbè essere incoscienti ma a tutto c'è un cazzo di limite, sopratutto perchè c'è una paura fottuta di entrare.
«Anvedi aò, che posto fico!» esclama Celestino.
«Da paura!» risponde Attilio. (Sì, sono amici romani, nel caso vi fosse sorto il dubbio)
Inizio ad essere preoccupato, perché l'alternativa all'entrare dentro la fortezza del Barone Ashura a notte fonda (l'ultima volta che ci siamo stati, abbiamo scoperto che ci facevano messe sataniche) sarebbe dormire nelle catapecchie ai piedi della collina, che non hanno tetto ne, effettivamente, pavimento.
«Massicuramente c'è il passaggio» dice Alex.
«Eddove minchia è?» chiedo, con la vena che inizia a pulsarmi sulla tempia.
«Ecco vedi, questa è proprio una bella domanda».
«Ammazza aò»
«Che tajo»

Inizia ad essere tardi e visto che l'entrata non si trova, urgono rimedi drastici: SI SCALA UNA COLLINETTA COPERTA DI ROVI PER PASSARE DALL'ALTRA PARTE, SU UN PONTE.
Ponte, oddio. Due sbarre di acciaio arrugginito, incastrate fra le mura della fortezza.

La scalata è sorprendentemente semplice, nonostante ci sia gente che non fa ginnastica dal liceo (me) o è palesemente in imbarazzo con qualsiasi attività sportiva (gli altri), non fosse che una volta scalato il dosso, ci troviamo in mezzo ad una distesa di rovi taglientissimi; noi chiaramente indossiamo tutti i bermuda, quindi le simpatiche pianticelle ci scorticano allegramente le gambe, neanche fosse una delle trappole di Saw L'enigmista.
Alex a un certo punto decide che gli puzza la vita, inciampa e perde una scarpa; vorrebbe anche cadere giù per quei tre-quattro metri, sul duro cemento del terreno, ma fortunosamente si aggrappa ad un arbusto e finisce giusto completamente in mezzo ai rovi, scorticandosi ulteriormente.
Superiamo agilmente, come solo un branco di bradipi ubriachi può fare, le due travi arrugginite che fanno da ponticello e finalmente arriviamo in cima. Chiaramente non si vede un cazzo, ma per fortuna abbiamo le pile.



Tipo così, però di notte.


Cerchiamo un posto per passare la notte, dove non soffi necessariamente il vento assassino che c'è qui in cima, trovandolo in una delle vecchie postazioni per i cannoni della fortezza, un cerchio in pietra senza soffitto, con alcuni vecchi bulloni incastrati nel pavimento cementato.
Sistemiamo, chi i sacchi a pelo (i due romani), chi due semplici teli da mare (io e Alex) e il campo zingari è approntato. Io non ho felpa, essendomela dimenticata chiaramente nella fretta di fare lo zaino; ho recuperato un giacchetto primaverile bianco dal portabagagli dell'auto di Alex, diosolosa da quanto tempo era lì e entrambi dividiamo una coperta che sta iniziando a dotarsi autocoscienza, visto che, da che ricordo, è sempre stata dentro quel portabagagli dove risiedeva anche il giacchetto.



Il campo zingari.


Il cemento è duro, io appena appoggio la testa allo zaino (che ha la stessa morbidezza e spigolosità di un sacco di mattoni), inizio a russare come un mammalucco, ma tempo un'ora sono sveglio.
Provo a riaddormentarmi, ma c'è gente che russa. Riesco a riprendere sonno, ma s'alza il vento e c'ho un freddo fottuto perchè Alex si frega tutta la coperta.
Recupero la coperta, chiudo gli occhi e uno stormo di B52, in formato zanzara, inizia a pasteggiare col mio sangue. In un rosario di bestemmie che avrebbe fatto impallidire satana, infilo la testa sotto la coperta puzzolente, cerco di coprire tutti i pertugi e chiudo nuovamente gli occhi. Quando sento il ronzio di una di quelle fottute bestiaccie, passarmi accanto all'orecchio che è poggiato sul braccio (dormo di fianco, sì), sopra lo zaino, decido che, porca puttana, stanotte non è aria.
Guardo l'ora: le quattro del mattino.
Ho dormito la bellezza di due ore, non consecutive.
Mi alzo, prendo la pila e inizio ad esplorare i dintorni. Io sono un tipo abbastanza impressionabile, in genere, ma vuoi per l'ora, vuoi per il sonno, vuoi che eravamo all'aperto, vuoi che conoscevo già il posto, alla fine la passeggiata si rivela piacevole senza essere spaventella come mi sarei aspettato. Scopro anche che l'entrata che avevamo bellamente evitato, per giocare a fare i novelli Messner fra i rovi, era a circa 10 metri di distanza da dove abbiamo iniziato la scalata.
Si fanno le cinque e inizia ad albeggiare. Gli altri si svegliano e assieme ci godiamo una bella alba mentre ci pisciamo un po' dal freddo.
È tutto molto romantico.



Romantico.


Non appena il sole sorge, dismettiamo il campo zingari (mancavano solo le carcasse di qualche automobile, ma se fossimo rimasti qualche ora, sono convinto che si sarebbero materializzate pure quelle) e portiamo all'esplorazione gli amici romani fra i corridoi della Fortezza di Capo D'Orso.
Verso le sei scendiamo da Capo D'Orso, alla ricerca di un bar dove fare colazione, che incidentalmente si trova a circa trenta metri da dove abbiamo parcheggiato. Caffè, cornetto.
Si entra in bagno per darsi una rinfrescata ed io sono l'ultimo.
Scopro con orrore che c'è una puzza che farebbe impallidire un autospurgo e vengo poi a scoprire che quello prima di me ci aveva cacato.
Scappiamo dal bar prima che la puzza infetti tutto il locale e ci dirigiamo alla spiaggia.



La spiaggia di Capriccioli, è un ridente fazzoletto di sabbia e scogli tra Porto Cervo e Porto Rotondo, una delle calette più belle della zona, noto luogo di ritrovo per vacanzieri ricchi.














Capriccioli alle 8 del mattino Capriccioli alle 10 del mattino



Noi ci presentiamo lì che sono le otto del mattino, stanchi, sporchi e assonnati e la prima cosa che facciamo è occupare un quadrato di spiaggia che è praticamente il collegamento fra la parte ovest e quella est, impedendo, di fatto, il passaggio.
Ci rendiamo conto di ciò, non appena i simpatici senegalesi che vendono palloni, passano letteralmente facendo lo slalom fra i nostri asciugamani.
Decidiamo quindi di spostarci in un'altra zona.
Una volta ricalato l'asciugamano sulla spiaggia, che mi rendo conto in quel momento essere sporco di terra e fango dalla notte prima, la prima cosa che faccio è sdraiarmi e dormire, ora che l'aria è fresca e il sole non picchia come un wrestler professionista.
Riesco a strappare un'ora di sonno, prima che il caldo mi svegli ed è quindi d'uopo lanciarci in acqua.
L'unica cosa che noto di questa spiaggia, a parte che è bellissima, è che prevalentemente è popolata da vecchi o racchie che parlano in milanese. Una famiglia napoletana, con tanto di gerarca che ha la maglietta "I'm from Scampia" (true story), è a suo agio lì più o meno quanto noi. E mentre Io, Attilio e Alex cerchiamo qualcosa da fare, visto che di fighe da sguardonare manco a parlarne, Celestino fa amicizia con uno dei senegalesi e sparisce nella pineta dietro di noi. Non sapremo mai cosa ha realmente combinato lì dietro e, per mantenere intatta la nostra sanità mentale, non chiediamo nulla.
Il parcheggio è pagato fino alle undici, quindi verso mezzogiorno meno qualcosa, raccattiamo i nostri stracci, Celestino saluta il senegalese e siamo pronti per ripartire.
Destinazione: Porto Cervo. Missione: trovare un posto dove poter mangiare.
Dopo aver bighellonato per un po', riusciamo a trovare un parcheggio con un albero solitario che può darci un po' d'ombra; è l'una del pomeriggio, il sole è arrabbiato e pesta come un lottatore di MMA a cui hai dato dello stronzo e noi siamo seduti attorno a questo albero triste in cerca di ombra, a mangiare insalata di riso fatta il giorno prima e lasciata macerare dentro il portabagagli; Celestino e Attilio hanno la brillante idea di svuotarci dentro un intero tubetto di maionese, rendendola, di fatto immangiabile.
Finiamo quindi il lauto pasto e decidiamo cosa fare. Sono le due del pomeriggio e il caldo asfissiante non accenna a calare; l'unica cosa sensata da fare è dunque parcheggiare l'auto ed entrare a Porto Cervo per fare una passeggiata.

La prima cosa che ci colpisce, a parte il caldo assassino, è che non c'è l'ombra di una cartaccia per strada. La seconda, appena arrivati al porto, è il concessionario Rolls Royce, con tanto di due Rolls parcheggiate fuori, in esposizione e targate GB. Così, lo schiaffo alla povertà.
Lo yatch più piccolo ormeggiato è un dodici metri, la gente qui è composta da ricchi vestiti con Vuitton e Prada, ma indossati casual, che usano come abbigliamento da mare. Le donne ricche sono tutte fighe stellari, i troioni dell'est, con uno spacco di gambe che da solo è un metro e mezzo e i vestitini provocanti che ne risaltano le forme all'una del pomeriggio sono una realtà. Ragazzi con il Panama in testa, sicuramente firmato, la camicia Ralph Lauren e i mocassini blue scuro con i risvolti ocra, sembrano camminare e lasciare impronte d'oro dietro di sé.
Io mi guardo: ho gli stinchi completamente scarciofati dalla gita in mezzo ai rovi della notte prima, un paio di adidas bucate in due punti, con la suola che si sta staccando lungo tutto il lato interno e la parte superiore del tallone smangiucchiuata dai cani; una maglietta dei Simpson bucata sul d'avanti e dei bermuda militari che mi cadono perchè ho lasciato la cinghia a casa.
Alex sfoggia una canotta nera sudata dal collo in giù, braccia e gambe completamente sfigurate dopo la caduta sui rovi, il costume da bagno e un paio di scarpe strappate di dosso a uno zingaro.
Celestino indossa una maglietta grigio topo macchiata sul davanti di solodiosacosa, un costume da bagno modello bermuda a righe scolorite e delle scarpe sporche di terra.
L'unico vagamente presentabile è Attilio, con la sua canotta bianca semi immacolata, la paglietta in testa e il costume dai colori sobri.
Tutti noi, chiaramente, siamo sporchi di sabbia, salsedine e siamo sudati come le palle di un cammello.

La nostra presenza lì, spicca come uno stronzo sopra un divano bianco.

Celestino fa amicizia con due vecchie francesi che gli chiedono una foto (fotograferà un tre quarti con tanto cielo e un gabbiano di passaggio, tagliando i volti delle vecchie), noi girelliamo per negozi Prada, Ralph Lauren e Dolce & Gabbana.
Al porto c'è una esposizione di macchine operaie: una Bugatti Veyron (valore di listino 2 milioni di euro) fa bella mostra di sé, mentre poco più avanti una sfilza di Maserati di varie tipologie sono bellamente allineate sulla banchina (valore di listino: dai 100 ai 250 mila euro).
Noi si ride e si scherza, dicendo che manca il gancio traino per attaccarci la rulotte, provocando l'ilarità generale, mentre gli omini della sicurezza ci guardano malissimo.
 












Utilitarie per operai della Breda.

Scopriamo con nostra sopresa che a Porto Cervo è presente un SISA (una catena di supermercati sarda), una roba che mai mi sarei aspettato di trovare lì. Anche i ricchi fanno la spesa.
Decidiamo di entrare.
Mediamente, i prezzi sono il doppio rispetto a quelli di casa mia (che sono già abbastanza alti di loro). L'occhio cade su un acquario, dove sono presenti delle aragoste vive e degli astici, al modico prezzo di 159 euro al kg, cento euro in più rispetto ad Alghero.



Le aragoste proletarie.


L'unica cosa dal prezzo umano, qui dentro, è la coca cola, ma giusto perchè c'è il prezzo imposto marchiato a fuoco sull'etichetta, 1,89. La prendiamo fresca e per un momento temo che il sovrapprezzo sia di cinque euro, ma alla fine son solo pochi spicci. Usciamo, ammirando degli splendidi tappeti che costano dai 400 ai 600 euro, che li ho visti uguali identici dai senegalesi la mattina, in spiaggia, a un decimo del prezzo.

Sono le tre, il giro per Porto Cervo è finito e a noi non resta altro che risalire in macchina e fiondarci nuovamente in spiaggia.
Alex è alla ricerca di un posto nei ditorni chiamato Piccolo Pevero, una caletta rinomata per la sabbia bianchissima e l'acqua cristallina, ma il simpatico navigatore vorrebbe farci passare dentro una mulattiera con tanto di sbarra d'acciaio calata, un po' come i posti di blocco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Decidiamo di rinunciare e prendere una strada a caso. Dopotutto lì è pieno di calette.
Arriviamo in un posto che il simpatico parcheggino ci dice chiamarsi "Spiaggia del Principe" e cerchiamo parcheggio, trovandolo praticamente in mezzo alla strada a un paio di km di distanza.
Sotto il sole cocente ci mettiamo in marcia, arrivando a suddetta spiaggia, che scopriamo essere la versione proletaria di quella visitata quella mattina: ressa, tope, leggermente sporca (ma siamo sempre a Porto Cervo, non è che ci fossero carcasse di lavatrici buttate fra gli scogli), ma molto bella.
Ci ficchiamo in acqua senza tanti complimenti e bene così.
Verso le sei ci mettiamo nuovamente in marcia: l'idea sarebbe quella di trovare delle doccie per lavarci di dosso la sporcizia ed il sudore, cambiarci, e andare alla seconda serata dell'Aglientu Blues Festival.
Scambiando due parole col parcheggino, scopriamo che c'è un posto dove potremmo lavarci, ed è praticamente affianco a Capriccioli.
Torniamo nuovamente lì, paghiamo quei due euro e ci ficchiamo sotto la doccia (fredda), passandoci un bagnoschiuma comprato alla Lidl durante il tragitto, che dal colore e dall'odore, poteva benissimo essere detersivo per i piatti. Tutti tranne Celestino, che decide che l'acqua gli fa schifo e non vuole lavarsi (la scusa è che non ha il cambio).
Siamo rinati. 
Io metto sù la maglietta pulita (una t-shirt nera sfibrata, con la scritta "Sex Drugs & Rock n' Roll") e siamo di nuovo in pista.
Ci fermiamo nuovamente a Tempio, alla ricerca di un supermercato dove poter comprare qualcosa per la cena e troviamo un Eurospin che fa al caso nostro. Panini, affettato e maionese. Grand Gourmet.
Verso le otto torniamo ad Aglientu, con una bottiglia di simil prosecco dell'Eurospin e, puliti e pettinati, attendiamo l'avvio del secondo concerto, seduti in prima fila.
Alex e Attilio hanno sonno e vanno in auto a dormire con la raccomandazione di svegliarli non appena s'inizia. A me viene il cacatone, ma il cesso è impraticabile. Mi imbosco quindi dietro la colonna di un palazzo dalle ampie vetrate, forse un convento o una cosa del genere, comunque abitato e faccio quello che devo, temendo di essere visto, cosa che comunque non succede.


Il concerto inizia: BB & The Blues Shacks sono sul palco ed è subito festa. Alex e Attilio si perdono i primi due pezzi, ma ci raggiungono, mentre notiamo una tizia che già dal giorno prima avevamo intravisto: la versione femminile di Billy Ballo che, non appena sente un po' di musica, inizia, appunto a ballare. Da sola.
Noi la guardiamo pensando che la legge Basaglia abbia fatto davvero troppi danni, da quando è entrata in vigore.
Stappiamo il vino, finendolo in dieci minuti e pentendoci di non averne preso altro: era una serata che avrebbe meritato più alcol.
Verso le undici BB & The Blues Shacks ci abbandonano, per lasciare spazio, alla Italy Blues All Star, una specie di selezione di Bluesman italiani, famosi in europa e nel mondo. Roberto Luti, Mike Sponza, Marco Pandolfi e Max Lazzarin si esibiscono tutti sullo stesso palco, andando sovente fuori scaletta e improvvisando brani come se piovessero.
Una gran bel concerto.



Sotto al palco con la giacchetta bianca che ho usato per dormire.


La gente era talmente infogata (e bevuta), che hanno chiesto prima un bis, poi un tris, poi hanno costretto il fonico a riattaccare la corrente per farli continuare a suonare. In definitiva, doveva finire all'una di notte e se ne sono andati che erano le due passate.
(Nota di colore: mentre Roberto Luti improvvisava un assolo dei suoi, una testa di cazzo pelata gridava "FACCI BALLARE", rovinando lo spettacolo a tutti. Bravo, coglione.)


È tempo di levare le tende. Saliamo in macchina e, mestamente, ci dirigiamo verso casa.
Verso le quattro Alex si ferma per far benzina.
«Oh ragazzi, che giorno è il 22?»
«Venerdì, perchè?»
«C'è Pino Scotto a Tottubella»

...And the story is neverending.

6 commenti:

  1. Nemmeno la Syusy Blady e consorte sarebbero stati capaci di fare una recensione così. Comunque c'è poco da fare, i viaggi improvvisati sono sempre i migliori.
    Celestino ahhahahah che cazzo di nome ti è venuto.

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  2.  Che poi non era neanche improvvisato, sono io che sono rincoglionito e non ricordavo

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  3. per caso sono entrata nel tuo blog..mi ha incuriosito il tuo viaggio improvvisato con gli amici...e ho letto, sorriso e ora commento.
    Ciao!Munky
    Dora

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  4.  Ahahahaha  Non sapevo di questo blog. Grazie per l'Attilio! spero non venga mai svelata la mia vera identità. Sono come Clark Kent (na branda che si cambia nelle cambine telefoniche) il cui unico punto debole è il piombo… Celestino sei un PIOMBOOOO!!!

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